venerdì 5 settembre 2014

My first IRONMAN 70.3

Zell Am See-Kaprun, Austria, 31 Agosto 2014 

La scelta – Perchè è il momento giusto per provare il 70.3. Vorrei un evento grande, internazionale, con migliaia di persone da tutto il mondo, un po’ come la mia prima Maratona a Roma. Dove tutti sono benvenuti, e dove l’ultimo atleta è applaudito quanto il primo arrivato. Un evento sicuro, ben organizzato, dove non esistono macchine sul percorso. Meglio alla fine dell’estate, così ho modo di allenarmi e di riposare. E se poi c’è anche il “pallino”, mi gasa ancora di più!


La vigilia lunga due giorni – Zell am See, cittadina del Tirolo austriaco a 750 m s.l.m. Arriviamo due giorni prima. Io e mio marito, unica persona con cui ho condiviso questo sogno, e che fin da subito mi ha dato fiducia. Non ne ho parlato con nessun altro, nemmeno con le persone più care, perché le loro preoccupazioni mi avrebbero resa titubante, quando l’unico pensiero da avere è la convinzione di potercela fare. 

Piove, l’avevamo messo in conto. Il clima è fresco, ma si sta bene. Si ritira il pettorale, si cerca di capire come funziona qui l’organizzazione. Quanta gente, da tutto il mondo. Quanti giovani, in totale più di 2200 iscritti e 1500 volontari. Mi sento un po’ frastornata, per fortuna abbiamo preso un appartamentino sul monte, dall’altra parte del lago, presso un’azienda agricola, dove rifugiarsi in silenziosa tranquillità. Dal terrazzo si vedono le boe del percorso nuoto: sembra lunghissimo, meglio non pensarci e preparare la pasta al ragù. 

Quanti appuntamenti il giorno prima: l’affollato briefing, presentato da un tipo brillante e molto comunicativo, che dà utili consigli agli atleti mettendoli in guardia dai pericoli della pioggia sul percorso bici. Mi spaventa sapere dei due chilometri di salita al 15%, poi penso alle fatiche fatte sui pedali per arrivare fino a qui, e cerco di convincermi che ce la posso fare. Poi l’allestimento della zona cambio, sotto una pioggia che ha reso il campo di atletica una grande pozzanghera. Mentre mi dirigo verso il mio numero mi viene da piangere: ma come ho fatto ad arrivare fino a qui? A pensare di provarci? Già questo è un traguardo. Su, su, adesso bisogna concentrarsi sulla zona cambio. Appendo le mie sacche vuote: le riempirò prima dello start, domani non voglio indossare vestiti freddi e bagnati. Appendo la mia biciclettina, che si chiama Lady, e la copro con il suo telo giallo: è bella, con il suo robusto alluminio bianco tirato a lucido, non si fa intimorire dalle vicine sorelle in carbonio, o dalle crono con le antenne lunghe. A domani piccola.




La notte prima - Qualche problema di pancia, risolto grazie alla brillante idea del marito di riempirmi una bottiglia con acqua bollente, da usare come una borsa dell’acqua calda. Funziona, e mi addormento con la bottiglia sulla pancia. Dopo qualche ora mi sveglio, sono sudatissima, mi cambio. Pensieri di ogni tipo mi scorrono davanti. Mi dicono che sono fortunata, che ho “buon tempo” se sono lì adesso, che sono lì per divertirmi, che devo solo ringraziare. Sgranando Ave Maria inizia ad entrare luce dalla finestra, fino a che non vedo più nulla, per gli ultimi minuti di riposo. 

Il giorno della gara – Il suono della sveglia mi coglie di sorpresa, vorrei tornare a letto e non ho voglia di fare quello che ho da fare. Con un po’ di colazione pian piano mi sveglio. Il tempo è grigio, i vestiti scelti per le tre frazioni sono confermati. Ultime sistemazioni in zona cambio: riempio le sacche per T1 e T2, e carico la mia Lady con tutto quello che ci serve per i nostri 90 km in autosufficienza. Sembra un cavallo bardato per andare in guerra: due camere d’aria, due bombolette di CO2, la pompetta, la borraccia con i sali, la thermos Elite Deboyo con il tè caldo (che sembra il nocciolo di un ordigno nucleare), una borsina lunga e stretta sul telaio con un paio di gel e di barrette, e una borsetta sul manubrio dove tenere la giacca anti pioggia. C’è tutto. È ora di indossare la muta. L’attesa è lunga, e il neoprene mi tiene appena appena caldo. Ci sono 14 gradi. Ho freddo ai piedi, e la pancia ricomincia a brontolare: grazie ancora alla brillante idea del marito, che mi ha prestato le sue scarpe per tenermi al caldo. Partono le prime batterie, atleti pro e uomini. Per ultima la batteria delle donne, cuffie rosa. Saluto il marito, ora tocca a me. Mi avvio con le cuffie rosa verso la partenza, camminando in un freddo fango che mi fa battere i denti.



Prima frazione: 1.9 km swim – Ecco il lago. Oggi il nuoto è un’incognita, chissà come va, ho nuotato solo due ore nel mese di agosto. Chissà questi occhialini nuovi se vanno bene, meglio stringerli ancora un po’. In acqua: pronti, via. Già le prime bracciate mi danno molta tranquillità. Il lago è piacevole, l’acqua è a 17 gradi, si sta bene, inizio a scaldarmi. Oh, finalmente mi rilasso. Ricordarsi due cose mentre si nuota: rollio e braccia alte. Ok, il movimento viene, vado avanti con poco sforzo. Come sono tranquille le atlete intorno, non sgomitano come nelle distanze più brevi. Le grosse boe gialle si vedono bene sullo sfondo grigio, la traiettoria è diritta. Non mi piace avere davanti i piedi di altri atleti, preferisco avere come riferimento le cuffie rosa a destra o a sinistra. Giro di boa, inizia il tratto di ritorno. Che bella questa nuotata, vorrei non finisse più. Le atlete si fanno fitte, siamo quasi all’uscita. Ecco, ci tocca uscire. Gentili i volontari, che ci prendono per un braccio e ci tirano su.



T1 – Di corsa sull’asfalto verso il campo di atletica, prendo la mia sacca e trovo un pezzo di panchina libera. Non riesco a togliere le maniche della muta, chiedo aiuto a una volontaria che gentilissima mi dà una mano. Appena la muta è tolta, un gran freddo mi piomba addosso. Mi siedo sulla panchina e le mie gambe iniziano a saltare da sole, sotto lo sguardo perplesso dell’atleta vicino. Per prima cosa indosso i gambali, e il tremore si ferma. Poi calzini, scarpe, manicotti, copertina della rivista del CAI sulla pancia, maglia ciclo, guanti, casco e occhiali. Quindi un gel e un sorso di tè caldo dalla thermos che avevo lasciato nella sacca. Lo stomaco ringrazia. Già che ci siamo, sosta rapida al TOI, che con questo freddo mi scappa già la pipì. Vabbè, ci avrò messo un quarto d’ora, ma ho riposato un attimo e sono pronta per la frazione per me più difficile. Andiamo Lady, adesso tocca a noi. 

Seconda frazione: 90 km bike, 900 m D+ – A giudicare dal numero di persone che mi stanno sorpassando, sdraiate sulla bici, devo aver nuotato bene. Fantastica la copertina della rivista del CAI sulla pancia, che mi tiene caldo nonostante la maglia bagnata dal nuoto. Belle queste strade, silenziose, in mezzo ai prati. Le mie gambe ci mettono un po’ a scaldarsi, dettano loro il ritmo di pedalata, e lascio fare. L’asfalto è ancora asciutto, per ora tutto bene, portiamoci avanti che tra poco sarà pioggia. Le gomme gonfiate morbide sono più lente rispetto a quando sono dure, ma tra poco avrò bisogno della massima sicurezza. Primi 20 km praticamente piatti, solo qualche saliscendi. Ad una curva in discesa i volontari dicono di rallentare, c’è l’ambulanza: un atleta l’ha presa dritta, ha scavalcato il guard rail ed è finito nel torrente sotto… Mamma mia… Iniziano i 15 km di salita. Si va su bene, pedalata agile, recupero un po’ di posizioni. Dobbiamo arrivare ai 1300 m s.l.m., e lassù è tutto grigio. Arrivano folate di vento freddo, che fanno cadere sulla strada foglie gialle: qui è già autunno! Inizia a piovere. Qualcuno indossa la giacca anti pioggia, io decido di proseguire fino alla cima, e di indossarla solo prima della discesa, quando avrò davvero bisogno di proteggermi dal freddo. Ecco un ristoro: passo avanti, ora non mi serve, ho tutto per gestirmi in autonomia. Un cartello indica l’inizio del tratto di 2 km al 15%. Pensavo fossero rampe ripide, intervallate da tornanti, invece no, ho davanti una strada praticamente dritta e ripidissima. Non mi alzo sui pedali, altrimenti non ho tratti in cui recuperare. Decido di procedere seduta, zigzagando. Molti atleti scendono dalla bici e la spingono su. No Sarah, per favore, resisti, se scendi ora non arrivi più, resisti e pedala. Ho il cuore in gola, la pioggia è aumentata e la strada è un ruscello. Non ho mai fatto così fatica sulla bici, questa salita non finisce più. Ma non li fanno i tornanti in Austria? Ultimi 500 metri, ultimi 100 metri, ecco la cima. Adesso pausa. Scendo dalla bici e indosso l’antipioggia, mi infilo in bocca una barretta e bevo quasi tutto il mio tè caldo. 

Ora la parte più difficile, massima concentrazione. Inizia la discesa, ripida, con l’asfalto che è un ruscello. Sento subito una sbandatina della bici, devo procedere piano. Il ciclista di fiducia mi ha regolato le gomme morbide, alla pressione adatta per la pioggia, quindi ho la giusta aderenza. Un atleta mi sorpassa veloce, vai vai che io scendo con calma; passo la curva e me lo ritrovo per terra, dall’altra parte della strada, che si guarda i polsi… Proseguo la lunga discesa, mi sorpassano le ambulanze, vedo due biciclette parcheggiate senza atleti, qui si stanno facendo male. Ma che freddo fa… Mi tremano gambe e braccia, e la mandibola mi sbatte sui denti. Un pensiero lassù, a Colui che con la sua mano ha vegliato su tutti i miei allenamenti solitari in bici, nei sabati “ore 6 sui pedali”, facendomi tornare a casa sana e salva, facendomi conoscere in allenamento cosa significa avere una congestione in bici lungo una discesa, e facendomi capire come evitarla (copertina di rivista sulla pancia, bere solo bevande calde). Stendi la tua mano anche questa volta, proteggimi dai pericoli di questa discesa sotto la pioggia. Se mi hai protetto fino a qui, so che vuoi che raggiunga il traguardo. Finalmente la discesa finisce, e riprendo a pedalare, scaldandomi. Altre ambulanze mi sorpassano, più avanti un atleta in body è sdraiato a terra, tremante, assistito dai volontari. Non voglio finire in ambulanza, voglio arrivare alla corsa. 

La pioggia non si ferma, ma ora il percorso è tranquillo, tutto praticamente piatto, solo qualche saliscendi. Non vedo altri atleti davanti, e questo mi rallenta nei centri abitati, dove vedo in lontananza le strade sbarrate e capisco solo all’ultimo se girare a destra o a sinistra. I cartelli indicano prima il 60°, poi il 70°km. Sono stanca, ho finito il mio tè con un gel, ora sorseggio la borraccia con i sali tendendomeli in bocca un po’ per scaldarli, prima di mandarli giù. Giro di boa, e nel tratto di ritorno vedo che dietro di me ci sono parecchi altri atleti. Le gambe sono stanche, e non hanno voglia di tirare di più, perché stanno pensando che dopo devono correre 21 km. Cartello dell’80° km: la testa è stanca, ho voglia di mettere giù la bici, indossare i vestiti asciutti, bere il mio tè caldo e iniziare a correre. Dai Lady, siamo quasi arrivati. A proposito, hai notato che su queste strade austriache non abbiamo trovato buche?



T2 – Come appoggio i piedi a terra, sento forti fitte alle gambe. Cammino fino alla zona cambio, chi se ne frega, devo riposare un po’. Poso la bici, la guardo: sei stata brava! Sosta TOI, che con questo clima mi scappa ancora la pipì. Prendo la mia sacca, tolgo gambali e manicotti, sento con piacere calzini asciutti e scarpe morbide. Indosso il mio abbigliamento collaudato nelle numerose maratone sotto la pioggia: maglia di fiducia, cappellino e pettorina. Quindi un gel e un sorso di tè caldo dall’ennesima thermos che avevo lasciato anche in questa sacca. Lo stomaco ringrazia ancora. Una volontaria, mi pare la stessa che mi ha aiutato con la muta, mi osserva mentre bevo, e mi dice “sehr gut”. Le sorrido, immagino che non abbia visto tante thermos tra i triatleti… Per stare nei tempi limite fissati per nuoto + bici, so che dovevo partire a correre alle 15:30. Al polso ho il mio “everyday watch”, uno swatch ultrapiatto che non sento indosso: guardo le lancette, sono le 15:30 precise! Appena in tempo! Via! 

Terza frazione: 21 km run – Relaaax! Oh che bello, adesso non devo stare attenta più a nulla, non importa se piove, la testa può andare in standby, e le gambe vanno avanti da sole. Vedo il mio marito, yeee! Inizio il percorso sul lungo lago, ci sono tanti atleti che corrono. Sono ben coperta, forse troppo in questo momento, ma ho da correre almeno due ore, e mi verrà a trovare la stanchezza, che mi farà sentire freddo anche quando freddo non fa. Finalmente bevo a tutti i ristori, sempre poco per volta e tenendo in bocca un po’ per scaldare, prima di mandare giù. Sorpasso diversi atleti, qualcuno sembra davvero sofferente. Io sto bene, le gambe vanno da sole al ritmo che decidono, sento che sto corricchiando con il mio passettino tranquillo, quello del Geco, quello che ha fatto le ultra, quello che va piano ma non si ferma più. Mi abbandono ai miei pensieri, mi rivolgo lassù e ringrazio Colui che mi dato l’opportunità di correre per questo traguardo, dopo anni difficili. Penso che la cosa più importante che ho imparato dallo sport è saperci rinunciare, per poi riprenderlo appena possibile. Lezione che tornerà utile nella vita. Sarah, ancora un po’ di concentrazione, che stai facendo una mezza, anche se ormai non senti più lo scorrere del tempo. Spugnaggi, ristori, primo giro, gel, secondo giro. Si alza un vento freddo e la pioggia aumenta: adesso sì che sento volentieri tutto il mio abbigliamento! Manca davvero poco, ma pensa te, sto arrivando, vuoi vedere che ce l’ho fatta? Gli ultimi cento metri me li voglio proprio godere, non capiterà un’altra volta! Il pubblico che applaude, lo speaker che mi dà il cinque, che festa, che bello, finisher! Ce l’ho fatta!



E poi… - La medaglia, le foto… Ritrovo il marito e lo ringrazio, perché senza di lui questa avventura non potevo nemmeno sognarla. Ora posso raccontare la mia avventura. È stata dura, soprattutto arrivare all’evento e gestire le condizioni per me difficili. Il fisico ha risposto bene, anzi, ha recuperato meglio lo sforzo fatto con questo clima che gli allenamenti svolti al caldo nei mesi scorsi, che mi hanno “sballato” non poco l’equilibrio di liquidi e di pressione. Sento di aver raggiunto un traguardo importante, di quelli che lasciano il segno nella vita. Sento di aver raggiunto il mio limite in questo sport. Sento che adesso posso davvero voltare pagina. E poi… ci sarà un’altra avventura da raccontare…





Ecco il fotoracconto!