Oggi è la Festa del Papà. L'occasione per raccontare una storia.
C’era una volta, tanti anni fa, una ragazzina che andava a scuola. Durante l’ora di ginnastica, non era presenza gradita in squadra, perché non faceva i punti per vincere. Le veniva chiesto di eseguire un gesto, e su quello era valutata, ma non le veniva mai spiegato come il gesto andasse eseguito, e non le riusciva spontaneo, senza insegnamento. A qualcuno la cosa faceva ridere. La domenica mattina la ragazzina andava a correre alle “non competitive”, che oggi si chiamerebbero “manifestazioni ludico motorie” o semplicemente “tapasciate”. Che bello correre, come si stava bene correndo! Andava perché ci andava il suo papà, che si allenava per le maratone. Mentre la mamma scriveva la sua tesi di laurea in pedagogia sul “valore educativo” di quelle cose. Era un ambiente molto bello: tante persone felici, che correvano e ridevano, nessuno pretendeva niente da loro, ma ciascuno di loro aveva un obiettivo con sé stesso. Era un ambiente che accoglieva tutti, molto inclusivo. “Inclusione”: ci doveva proprio credere quel papà cardiologo che raccontava la prima volta alla maratona di New York di un paziente trapiantato di cuore, o la 100km del Passatore di un paziente infartuato. Ma i racconti che più facevano sognare la ragazzina erano le avventure sugli sci di fondo, in particolare quelle nel “Grande Nord”.
Raggiunta la maggiore
età, la ragazza si scrollò di dosso l’ignoranza del sistema scolastico e
divenne finalmente libera di godersi l’attività sportiva che le piaceva. Le
corse divennero lunghe pause solitarie nei boschi vicino casa, tra un esame
universitario e l’altro.
Diventata ormai giovane
donna, un giorno chiese al suo papà: “Ma secondo te ce la faccio a correre la
Maratona di Roma?”. “Certo!” fu la risposta. E tre mesi dopo, Roma fu. "Ma
secondo te adesso ce la faccio a correre una 50km?”. “Certo!”. E due mesi dopo,
50 fu. La giovane donna si era ormai innamorata di quelle lunghe distanze. Per
un po’ di tempo ebbe la fortuna di condividere avventure davvero piacevoli con
un gruppo di amiconi che avevano la stessa passione: “la Squadra”, da voler
bene a tutti. Poi, gli alti e bassi della vita, la salute che non sempre c’è.
Ma quell’amore aveva ormai trovato dimora nel suo cuore, e da lì continuava ad
ardere. Se non poteva essere corsa, allora diventava altro,
ma sempre con lo stesso spirito, quello dell’endurance. E divenne bici, nuoto,
sci di fondo, triathlon. La ricerca di nuove esperienze, il miglioramento
continuo, imparare dai propri errori, alzare l’asticella, sognare e vivere i
propri sogni. E godere di quel piacere che tutto questo dà. Partire per grandi
distanze in solitaria, che più sono lunghe fuori, più diventano profonde dentro.
Sono passati diversi anni.
Ora quella persona sogna tanto e parla poco, il più delle volte solo ad
obiettivo raggiunto. Ma questo semplicemente perché, prima di un grande
impegno, ha bisogno di raccogliere la massima fiducia in sé, e parole di
preoccupazione, anche quelle di un genitore, non ne deve sentire. Se oggi
quella persona si realizza e trova la felicità nel suo mondo sportivo, sa di
ringraziare il suo papà, e la fiducia che le ha dato.